IL MORO DELLA CIMA

In questi ultimi anni stiamo assistendo a un’ondata di scrittori quarantenni: molti scrivono di montagna, di storie legate alla montagna, alcune inventate e altre parzialmente vissute.

Il “Moro della Cima” è un particolare romanzo che attinge a piene mani da un personaggio che è realmente vissuto, essendo stato giovane pastore, poi paròn di malga, guida per il turismo montano agli albori ma soprattutto il primo gestore della capanna rifugio “Bassano”, sorto sulla cima del Massiccio del Grappa.

Agostino Faccin, che tutti chiamano “il Moro”, la felicità la scopre da ragazzo (siamo alla fine dell’Ottocento), tra le montagne di casa, dal momento in cui capisce che più sale di quota più il mondo gli assomiglia.

Da quando è poco più di un bambino, il Moro ha una sola certezza: l’unico luogo in cui si sente al riparo dal mondo è tra i boschi di larici, nei prati d’alta quota, in compagnia di qualche raro alpinista… Così, quando gli viene affidata la gestione di un rifugio, gli sembra che la sua vita assuma finalmente la forma giusta. Ben presto in pianura si diffonde la fama di quell’uomo dai baffi scuri e dalla pelle bruciata dal sole, con i suoi racconti fantasiosi e le porzioni abbondanti di gallina al lardo, e in tanti salgono fin su per averlo come guida, lui che conosce come nessun altro quell’erta scoscesa di pietre bianche e taglienti. Ma quel rifugio è sulla cima del monte Grappa, e la Grande Guerra è alle porte: lassù tira un’aria minacciosa. Intorno al rifugio il movimento è frenetico, si costruiscono strade militari e fortificazioni, arrivano in massa le vedette, i generali, i soldati. E il Moro, che in montagna si sentiva al sicuro, assiste alla Storia che sfila sotto ai suoi occhi: nel 1918 il Grappa è la linea del fronte, un campo di battaglia che non tarderà a trasformarsi in un cimitero a cielo aperto e infine in un sacrario d’alta quota. Ma quando i fucili non fumano più e le fanfare smettono di suonare, lui, il Moro, tornerà sulla sua cima, e davanti allo sfregio degli uomini cercherà il suo personalissimo modo di onorare la sacralità della montagna.

Paolo Malaguti ci regala un’altra grande storia da un passato che non c’è più, dando voce e corpo a un mondo perduto, e portandoci lassù a respirare un po’ di libertà.
«Soprattutto all’alba, quando la luce è più morbida e la pianura si svela più ampia, e con lo sguardo arrivi fino alla curva del mare lontano: allora ti viene liscio credere che la vita possa davvero essere tutta così, giornate di sole e pascoli verdi».

La montagna – non una qualunque ma “la Grapa” – è l’altra grande protagonista del libro, che da un certo punto di vista potremmo definire come il romanzo dell’amore, lungo una vita, fra il Moro e la Grapa. Per tutto il libro il Moro non smette di guardare alla montagna e di coltivare un rapporto personalissimo con essa, e anzi si sostanzia sempre più come uno sguardo testimoniale anche per noi lettori. Attraverso di lui conosciamo le prime radicali trasformazioni nel modo di vivere quell’ambiente: non più solo alpeggio ma anche escursionismo, e dunque la necessità di un rifugio sulla cima, e di un gestore. Malaguti ricostruisce bene il contesto storico e alcune tappe decisive (come la salita a dorso di mulo del Patriarca Sarto, futuro san Pio X, per l’inaugurazione della statua della Madonnina del Grappa) di quella che il Moro percepisce come un’appropriazione talvolta indebita da parte della “pianura”.

La scrittura di Malaguti è fluida, piena di dettagli minuti, tessere ben inserite in dialetto che di fatto arricchiscono la stesura del testo, pensieri di altri tempi che prendono il giusto spazio, ammantando la storia di un tempo che non c’è più, apparentemente più semplice, o forse semplicemente più autentico.

Autore: Paolo Malagutti
Editore: Einaudi (280 pp., € 19,50)
ISBN 9788806251611